Di cosa parliamo quando parliamo di Birdman

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A quasi due mesi dalla notte degli Oscar, mi viene assegnato l’articolo di cinema. Entro nel pallone, non so che fare, un po’ perché i bei film che ho visto sono davvero tanti, un po’ perché nel marasma di critici –più o meno bravi- cinematografici, fare una recensione appropriata senza dire quello che chiunque ha già detto è davvero difficile. Così, giusto per semplificarmi il lavoro, scelgo di parlarvi di “Birdman o Le insospettabili virtù dell’ignoranza”. Candidato a ben nove premi Oscar, Birdman ha strappato ai rivali quattro delle statuette più ambite: Miglior Film, Miglior Regia ad Alejandro González Iñárritu, Miglior Sceneggiatura e Miglior Fotografia al bravissimo Emmanuel Lubezki. Pur essendo un film ambizioso, con al timone una regia magistrale che guida un cast di attori eccellenti, Birdman è un film di nicchia, ed è un film così profondo che è difficile parlarne come sarebbe opportuno fare. Ma di cosa para Birdman?

Riggan Thomson è un attore come tanti, che ha venduto la sua immagine all’industria cinematografica “commerciale”, interpretando per ben tre volte il personaggio di un supereroe, Birdman. Stanco di quest’ingombrante etichetta di attore di serie B, fallito nel lavoro come nella vita, a distanza di vent’anni dall’uscita del suo ultimo film, Riggan decide di tornare alla ribalta cimentandosi con un genere impegnato e impegnativo: il teatro; e lo fa dirigendo e recitando un adattamento di un racconto di Raymond Carver, ovvero “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”. Riggan è però un uomo senza qualità, un personaggio patetico che non riesce a superare i suoi fallimenti e ad accettarsi per quello che è. Riggan è sé stesso e il suo contrario, è spaccato in due, speculari, personalità. Dentro Riggan si consuma un conflitto tra queste due personalità, una rappresentata dal Thomson in carne ed ossa, l’altra personificata dal Birdman, da cui tanto desidera scappare.  Michael Keaton è eccellente, il suo personaggio è il fulcro dell’intero film e il compito assegnatogli è impegnativo proprio perché il suo personaggio è così multiforme, da potersi considerare fortunato se dopo aver girato il film non abbia cominciato a soffrire lui stesso di crisi di identità. Riggan ha un ego così spropositato da vedere cose che tutti gli altri non vedono. Non solo vede (e sente) incessantemente la sua parte “marcia” sotto le mentite spoglie del supereroe del boxoffice che non vuole più essere, ma è così avulso dalla realtà che lo circonda tanto da credere che, proprio come il Birdman da cui scappa, sia lui stesso dotato di poteri soprannaturali. Il confine tra la sua realtà interiore e quella del mondo che lo circonda è così labile da diventare disturbante. Da spettatori, si è continuamente proiettati dentro e fuori dalla mente del protagonista, da perdere come lui la percezione di ciò che è vero e ciò che non lo è. E tutto questo è, a mio parere, bellissimo (chi l’ha detto che “disturbante” fosse un giudizio negativo?).  L’escalation di avvenimenti che lo riguarderanno porteranno Riggan a ricongiungersi a poco a poco proprio a quella parte di sé che non riesce ad accettare. Ma non dirò come, dovete vedere il film.

Attorno alla figura di Thomson, gravitano tutti gli altri personaggi, in particolar modo Il collega e attore Mike Shiner (Edward Norton) e Sam, sua figlia, interpretata dalla bravissima Emma Stone. Emma Stone ci regala, probabilmente, la sua migliore performance di sempre. Il personaggio di Sam è un personaggio molto dark, ma cristallino.  Sam è la più giovane dei personaggi, ha vissuto meno di suo padre e dei suoi colleghi, ma è altrettanto consumata da una vita che non è andata e non va come vorrebbe. Sam non finge mai di essere quella che non è, è disillusa e arrabbiata. Ha un trascorso di tossicodipendenza, è svuotata e spenta, è l’emblema del fallimento nella vita di Riggan non solo come attore, ma come uomo e padre.  Nella vita è la manager di suo padre, ma non ama questo ruolo, né il fatto che, per riuscire a stare vicino a suo padre, di cui ricerca disperatamente le attenzioni, ha bisogno di lavorare al suo fianco. Ma Birdman è, anche se non solo, un film sulla Comunicazione. Per questo, anche Sam incarna, come gli altri personaggi, un preciso aspetto del mondo dello spettacolo e dei media: il web. Con un duro monologo a metà film, Sam fa capire a suo padre come la ricerca di un riscatto personale e la volontà di dimostrare qualcosa a sé stesso rifugiandosi in un mondo che non gli appartiene, come quello del teatro, non gli porterà ad ottenere nulla. Riggan ha respinto il mondo della tecnologia e dei social network come dimensione artistica moderna, ma sua figlia gli apre gli occhi su una verità lampante: è il pubblico che naviga in rete a decidere quanto vali. Essere competenti ed essere celebri non sono la stessa cosa, e tornare indietro, per chi come Riggan bravo non lo è mai stato, equivarrebbe a schiantarsi contro un muro. Sarebbe molto più intelligente, secondo Sam, che il padre si avvicinasse a questa forma d’arte, che si accosta al  cinema più di quanto non faccia il selettivo ed elitario entourage del teatro. L’interpretazione superficiale del film non lascia spazio a dubbi. Il regista ci vuole far conoscere, mettendoli a nudo, tutti i meccanismi del mondo dello spettacolo, contrapponendo teatro e cinema di consumo, passando per la critica e la rivoluzione che il web ha portato nella comunicazione di massa. Teatro, cinema e web. Tre aspetti dissimili dello stesso universo in cui Riggan rappresenta, chiaramente, il cinema (brutto, nella critica di Iñárritu) e la fama che il teatro e il mondo della critica demoliscono e rifiutano. Ma da che parte sta la verità? Chi ha ragione, il futuro (Sam, il web) o il passato (il teatro e la critica)?

E, a proposito di teatro, arriviamo ad un Edward Norton che in questo film è superbo, da dieci e lode. Il suo personaggio, Mike Shiner, è sfaccettato e complesso; appare sulla scena e ne fa razzia, possedendola con le battute migliori di tutto il film. Ogni dialogo, ogni interazione in cui Mike è coinvolto, canalizza l’attenzione dello spettatore sul suo personaggio, sulle sue parole. Norton rende perfettamente quest’intenzione e, pur non essendo il protagonista, lo diventa ogni volta che compare sullo schermo. Secondo la prima chiave di lettura, quella volta a “denunciare” le dinamiche della settima arte, Mike Shiner rappresenta tutto quello che Riggan non è: è talentuoso, preparato, è un attore che non si è svenduto alle masse, che non è vittima dello show business e della fama. Mike è il teatro, ambiente dove l’arte e la bravura prevalgono su ogni altro aspetto patinato e superfluo, tipico dello scintillante mondo di Hollywood di cui Riggan è parte. Ma anche Mike, come tutti gli altri personaggi, vive un dissidio interiore che lo tormenta. L’imprevedibile virtù dell’ignoranza di Mike è la continua ricerca di conferme che solo il suo lavoro gli dà. Egli è cosciente delle proprie potenzialità, ama quello che fa e per questo sa quanto vale solo nella misura in cui riesce a produrre qualcosa; ma non è altrettanto sicuro nella vita reale, che vive intensamente da percepirne l’essenza, senza riuscire mai a coglierla. Per questo si rifugia sul palcoscenico, unico e solo luogo in cui, ammetterà, di sentirsi davvero sé stesso. Per questo Mike è l’esatto opposto di Riggan, perché cela le sue insicurezze sotto una coltre di arroganza e supponenza (cosa che Riggan ha), e al contempo Riggan lo assurge a modello del professionista che vorrebbe essere (ma che non diventerà mai).

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I dialoghi che Mike ha sul tetto con Sam sono un piccolo gioiellino della perfetta sceneggiatura di cui fanno parte. Iñárritu affida a Norton la chiave interpretativa di molti aspetti del film, primo fra tutti, l’intenzione di farci vedere il mondo non attraverso il nostro personalissimo filtro mentale ed emotivo, non attraverso i suoi occhi, ma con l’animo e il vissuto dei protagonisti. Ciononostante, la vera potenza del film è proprio questa. Noi entriamo nel personaggio, non possiamo pensare come lui, non abbiamo il suo vissuto, eppure ne comprendiamo esattamente l’indole. Perché? Perché Birdman è, soprattutto, un film d’amore. E niente, come l’amore, può rendere uno stato d’animo, un dissidio interiore, un modo d’essere tanto universale. I personaggi di Birdman sono intrappolati in un sistema di scatole cinesi. E’ solo eliminando a poco a poco le sovrastrutture, sfogliando nella storia di ciascuno, nel corso della durata del film, che riusciamo ad arrivare al cuore della vicenda, al vero motivo per cui ci troviamo di fronte a personaggi infelici e sofferenti: una disperata ricerca di un modo per essere amati.

Ed è proprio approdando a questa seconda chiave di lettura, che ci rendiamo conto di quanto il vero titolo del film sia proprio “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?”. I personaggi di Birdman sono Pirandelliani: indossano delle maschere, cercando di essere amati smettendo di essere sé stessi e arrivando a convincersi di essere altro da sé: brancolano nel buio dei loro fantasmi interiori e delle loro insicurezze, per questo non badano all’amore che già hanno ma che è fittizio e si spingono oltre, cercando l’ammirazione di un familiare, di un partner, di un collega, del pubblico; amore, che non riescono ad afferrare. E’ forse di questo che parliamo quando parliamo d’amore, non tanto di un sentimento stereotipato e troppo spesso abusato, quanto più della ricerca spasmodica di un modo per afferrarlo?  Birdman è un film allegorico, simbolico e non è certo la trama, neanche così sviluppata, a contare.

Tutto quanto può interessante si possa evincere, si deve ricercare nei dialoghi, nella multidimensionale personalità dei protagonisti, nella forma perfetta che Iñárritu ha dato a questa pellicola.  L’inquadratura è fissa, come se stessimo assistendo davvero a un’opera teatrale e non guardando un film. Il che si presta bene all’assetto metanarrativo dello script che ha due livelli di racconto, la preparazione dello spettacolo e lo spettacolo in sé. Iñárritu gioca con la tecnica del piano sequenza dandoci l’illusione che la camera non si stacchi mai dalla scena, come se fosse una ripresa ininterrotta della storia a cui assistiamo, un flusso. Ci regala, così facendo, un unico, inevitabile, stacco su una scena chiave della vicenda interiore di Riggan, e si, eviterò spoiler anche in questo caso. Lubezki fa magie con la fotografia e con la luce, contribuendo all’inganno dell’unico, continuo piano sequenza. Provateci voi a girare una scena in due momenti diversi, dove anche il cambiamento più impercettibile intacca le caratteristiche della scena ripresa, e a consegnare una fotografia impeccabile, come se questa interruzione non fosse mai capitata. La colonna sonora è la chicca per eccellenza. “The Anxious Battle for Sanity” del jazzista messicano Antonio Sanchez ha però diviso la critica e l’Academy.  I jazzisti di tutto il mondo l’hanno osannata, l’Academy snobbata perché no, una sola batteria non è degna di costituire una colonna sonora. Aldilà del disappunto che posso esprimere su questa opinione, non ci sarebbe potuto essere stato nulla, più della batteria di Sanchez, in grado di scandire così bene i ritmi secchi e rapidi del film.  Il rullo dei tamburi, il ligneo ticchettio delle bacchette, il suono metallico dei piatti sono tutti volti ad amplificare l’inquietudine interiore del protagonista, che si alimenta minuto per minuto. La batteria riporta Riggan e lo spettatore alla realtà, è come un timer, come un pendolo che batte in attesa dell’ora della resa dei conti e che ci anticipa che qualcosa sta per capitare. D’altronde, i momenti di massimo onanismo mentale del protagonista, sono isolati anche musicalmente dal resto del film. Riggan viaggia sui tetti, si libra nell’aria, tenta di ricongiungersi e volare in alto come il Birdman che non amava essere. Il tutto è reso dall’utilizzo di sinfonie roboanti attingendo a Ravel, Mahler, Rachmaninoff e Tchaikovsky.

Birdman è una creatura in carne ed ossa, pulsante, viva; il cui battito cardiaco si muove a tempo con la batteria di Sanchez ,con gli occhi di Emma Stone e con i pensieri taglienti di Edward Norton. La sua morfologia è indagata a fondo da una camera che scava così sapientemente, da sembrare un endoscopio.

E’ vero, Birdman non ha raccontato nulla di nuovo, se volessimo fermarci alla sua lettura più superficiale. Ma non manca di originalità.  La trama è semplice, non ci sono plot stratosferici né inseguimenti all’ultimo microgrammo di adrenalina ma di quante cose si potrebbe parlare guardando F&F7, e di quante, dopo aver visto Birdman? Questo film non può piacere a tutti, perché non è un film convenzionale.  Ma quando non si riesce a decidere se sia migliore il contenitore o il contenuto, quando i titoli di testa si aprono su una riflessione di Raymond Carver, quando non servono esplosioni e combattimenti affinché il film funzioni, sfido chiunque a non avere l’impressione di essere davanti a un capolavoro moderno, uno dei film più belli degli ultimi anni e a un’opera, finalmente, premiata con merito.

 

 

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